L’inglese come veicolo della globalizzazione – La battaglia per la difesa delle lingue europee contro l’omologazione atlantica
Articolo tratto da L’UOMO LIBERO anno XXIII n. 54 ottobre 2002
La globalizzazione, con i suoi imperativi, le sue sfide, il suo futuro, assorbe ogni discorso dei massmedia sui processi e le tendenze del mondo contemporaneo. Il suo carattere precipuo sembra essere quello dell’ineluttabilità: una visione deterministica prefigura un assetto finale inevitabile, certo, progressivo e sostanzialmente benefico, sia sul piano culturale-formativo che su quello economico. Il dominio esplicito di un linguaggio unico, sovrapponibile alle lingue locali e nazionali, si integra perfettamente nell’ottica mondiali sta e globalizzatrice: tale “sistema funzionale”, contrabbandato anch’esso come ineluttabile, vede oggi nella lingua inglese – opportunamente imbastardita e “semplificata” – lo strumento sovrano della comunicazione e dell’espressione mondialista. “E’ delirante – ammoniva Claude Autant-Lara, il grande regista cinematografico e deputato europeo (per il Front Nationale) nel discorso di apertura tenuto al Parlamento di Strasburgo nel luglio 1989 – che, nell’Europa che ci preparate, consideriate per tacito accordo una sola lingua divenuta corrente – l’inglese”; e sottolineava – davanti a quell’uditorio perlopiù di rassegnati e di pavidi – che quella lingua finiva col frantumare e distruggere i gioielli nazionali, le culture originarie.
In effetti, l’incapacità “moderna” di sostenere e rispettare le diversità si traduce in un duplice attacco alla ricchezza e fecondità dei linguaggi nazionali: una consapevole azione di controllo e di ridimensionamento delle identità culturali operata dal mondo americano/statunitense (a dimostrazione che, oggi, non vi è mundialismo senza USA e viceversa) accompagnata da una diffusione crescente dell’inglese in quanto elemento centrale della tecnica/tecnologia moderna – si manifesta in entrambi gli aspetti la tendenza alla pianificazione e alla neutralizzazione del linguaggio e della cultura.
“La principale arma culturale impiegata dall’Occidente nel suo attacco contro l’Europa è l’influenza linguistica esercitata dall’inglese” (1), conferma Claudio Mutti.
Ma premettiamo alcune considerazioni di carattere generale.
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Il problema della lingua è, per sua natura, inscindibile dal problema della comunità nazionale. Vero è che il fattore “tempo” influenza e modifica il linguaggio, così come la sua stessa comunità, ma è evidente che – fintanto che un gruppo umano ha una sua precisa connotazione etnica, una forma, una tradizione ed espressione tipica – mantenere la propria identità significa proteggere e riaffermare, pur tra oscillazioni e aggiustamenti fisiologici, il proprio modo di essere e di vivere, di esprimersi e comunicare.
Ogni pensiero è d’altronde condizionato linguisticamente, e il linguaggio “nazionale” ha valore e forza di strumento, da un lato, e di simbolo, dall’altro: strumento di un certo tipo di comunicazione, simbolo di una realtà rispetto all’apparenza.
Di passata ricordiamo che la natura sembra porre delle precise barriere a forme di “invasione” linguistica e di educazione multilingue: “Svariati studi comportamentali dimostrano che la completa acquisizione delle componenti fonologiche sia percettive (per esempio, la discriminazione di fonemi) sia motorie (assenza di accento straniero nel parlare le lingue apprese) si raggiunge solo se i bambini vengono immersi in un ambiente in cui si parla una seconda lingua prima dei sei anni. Inoltre è stato osservato che già dopo gli otto anni di età va progressivamente declinando la capacità di imitare la prosodia delle lingue straniere” (2).
Pertanto l’imposizione artificiale (e il conseguente recepimento) di una lingua “mondiale”, estranea e con pretese globalizzanti – perché di questo si tratta – costituisce una seria minaccia all’espressione delle identità culturali nazionali ed etniche: “Ogni lingua riflette un conoscere umano variamente orientato, quindi un’applicazione della capacità universalmente umana di classificare il reale, la quale si dispiega in maniera diversa” (3).
Strumento e simbolo, dunque. Strumento – ripetiamo – di comunicazione e di espressione, la lingua nasce e si sviluppa all’interno di una comunità, della quale si fa interprete.
Essa è, prima ancora, simbolo di una realtà trascendente, di un logos primordiale, in quanto ogni linguaggio allude, in diversa misura, all’Essere (è la “casa dell’Essere”, precisa Heiddeger). L’inglese, oggi, merita il titolo di lingua dell’Anti-Tradizione, di parodia diabolica della lingua sacra. Quest’ultima, come era noto nel modo arcaico, incorpora gli elementi fondamentali della lingua originaria, declinandoli secondo una particolare, legittima prospettiva: ogni lingua sacra è una lingua della Tradizione.
L’inglese è, per pretesa esplicita. La lingua del mondo moderno, profano e materialista. Suo carattere evidente è la fisicità pratica, priva di ogni dimensione profonda e metafisica.
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L’idea di una lingua nuova universale ha in Cartesio un convinto precursore: il filosofo razionalista ipotizzava una regola di coniugazione dei verbi e di declinazioni dei nomi senza eccezioni che potesse essere riconosciuta e accettata in tutto il globo (4). Verso la fine dell’Ottocento l’ebreo polacco Zamenhof crea l’esperanto (dallo pseudonimo dell’inventore Doktoro Esperanto = dottore speranzoso), che nonostante la scarsa diffusione didattica riuscirà a costituire – nel secolo successivo – un’efficace arma di propaganda a favore della mondializzazione linguistica.
Nel 1907 da una costola del movimento esperantista (la Dèlègation pour l’adoption d’una language International, ai cui lavori partecipò tra l’altro il grande linguista francese Antoine Meillet) nasce il progetto ido (termine dell’esperanto significa discendente, figlio, sottinteso: dell’esperanto stesso), un esperanto riformato tuttora sulla scena così come l’interlingua, il neo e l’interlingue/occidental.
Si tratta d’altronde di linguaggi artificiali ausiliari e, come tali, non configgenti in linea di principio con le lingue nazionali: addirittura potrebbero queste ultime giovarsene, perché le lingue ausiliarie costituiscono di per sé una “zona franca” di inter-comunicazione che di fatto neutralizza ogni tentativo di imperialismo linguistico.
La realtà è però diversa: esperanto e simili rimangono creazioni/invenzioni assolutamente non operanti sulla scena mondiale svolgendo invece la funzione di battistrada dell’idea di una lingua unica, universale in quanto ovunque parlata.
Questa lingua è l’inglese che si sta imponendo in modo schiacciante e senza precedenti nella storia dell’umanità.
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La concezione tradizionale dell’Impero, contrariamente all’imperialismo anti-tradizionale moderno, prevede il rispetto delle lingue e delle specificità culturali e linguistiche. Si pensi all’impero asburgico e al suo principio ideale effettivamente tradotto in realtà: ogni nazione una sua lingua (austriaco, ungherese, italiano, ecc.) (5).
Ci troviamo di fronte a un fenomeno relativamente nuovo, generato dal colonialismo inglese, ma sviluppato in maniera decisiva dal fondamentalismo “occidentale”: tutto il mondo deve avvertire la propria inferiorità e la propria dipendenza dall’inglese, da quel mondo del progresso e degli affari. Nella pressoché totale indifferenza si afferma ed espande un’educazione di massa – mediocre e superficiale – al parlare e comunicare in inglese-americano.
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La prima fase della storia dell’inglese risale al V secolo, allorché si installarono sulle coste meridionali della Britannia popolazioni germaniche quali gli angli, gli juti e i sassoni: l’antico inglese di molte opere epiche e religiose (presenti a partire dall’VIII secolo) nasce dall’integrazione dell’anglosassone con elementi latini e nordici – in particolare danesi e norvegesi.
Con l’invasione e la conquista normanna seguita alla battaglia di Hastings del 1066, il francese soppianta l’inglese relegandolo nelle campagne, mentre il latino e parzialmente il greco sono la lingua del clero e dei letterati. Questa seconda fase, che dura fino al XIV secolo, rappresenta per la lingua inglese un periodo per così dire di occultamento e di sedimentazione, e anche di reciproca influenza con il francese.
Dal XIV secolo, inizialmente per impulso della borghesia anglofona, il nuovo inglese – figlio dell’anglosassone e del franco-normanno – diventa dominante. Le opere letterarie (Gower, Chaucer i primi) sono in inglese, non più in francese. Enrico IV, che regna dal 1399 al 1413, è il primo re d’Inghilterra ad avere l’inglese come lingua materna. Nel XV secolo prende corpo quello che ha ormai i tratti dell’inglese moderno: le declinazioni e i generi spariscono, la morfologia verbale si semplifica.
La storia di questa lingua – lo vogliamo sottolineare – ha una sua piena dignità, e l’inglese in sé merita considerazione al pari di qualsiasi altra lingua. La nostra analisi si incentra sull’uso abnorme e “imperialista” che ne è stato e che ne viene fatto: in questa prospettiva non si può trascurare la caratteristica propria dlel’inglese (e più ancora dell’inglese/americano) pienamente funzionale al ruolo mondiali sta da esso assunto. Essa è la sostanziale semplicità/aridità dell’impianto morfologico e sintattico. Già nel XV secolo l’inglese “…riflette ormai a malapena il volto dell’indoeuropeo e ricorda piuttosto le lingue del sud-est asiatico e dell’Africa centrale, e soprattutto per una coniugazione dalle variazioni drasticamente ridotte” (6).
Naturalmente la ragione fondamentale della diffusione dell’inglese risiede nella posizione di dominio della Gran Bretagna col suo immenso impero coloniale prima e degli Stati Uniti d’America poi. Ciò ha d’altra parte favorito un’inevitabile corruzione dell’inglese classico e una moltiplicazione di ibridi stanziali, a tutela dei preminenti interessi economici e commerciali anglosassoni e della generale imposizione dell’american way of life.
“L’anglais, justement fier de sa richesse et de son immense expansion…” Così si esprimeva Lefèvre in un testo classico del 1893, “Les races et les languages”.
La marcia travolgente dell’inglese è iniziata in realtà già molto prima, dal “cortile di casa”. A partire dal 1536, ad esempio, il Galles entra nel sistema giuridico ed amministrativo inglese, smarrendo gradatamente la propria lingua: il gallese si arrocca e resiste solo nelle scuole religiose, come le “scuole itineranti della domenica” (Yr Ysgol Sul), fondata nel 1781, per poi scomparire quasi completamente. Si manifesta qui come altrove una polarità – opposizione sostanziale che è tipica della società industriale e moderna:
INDUSTRIA, COMMERCIO, CITTA’ – LUNGUA DOMINANTE
ATTIVITA’ ARTIGIANE, CAMPAGNA – LINGUA DOMINATA
Così come, nei possedimenti e nelle colonie, la penetrazione linguistica riguarda nell’ordine
I CLASSI DIRIGENTI
II POPOLAZIONI DELLE CITTA’
III POPOLAZIONI DELLE CAMPAGNE
In molte nazioni si sono affermate le NNVE = Non Native Varieties of English, varianti locali dell’inglese che tendono a imporsi sulle lingue originarie snaturandole, per così dire, dall’interno. E’ il caso dell’indian english, che presenta notevoli interferenze lessicali e culturali. Su un modello bengali, ad esempio, “letto nuziale” è flower-bed, anziché nuptial-bed.
In merito, come è stato notato, “il potere dell’inglese nella vita indiana si estende anche a cose fondamentali come scegliersi una moglie. All’istituto di economia domestica di Delhi una delle ragazze ha osservato che il 95% degli uomini indiani considera decisamente l’inglese un requisito indispensabile delle spose…Inglese significa classe! Un’altra ragazza ha spiegato perché l’inglese sia più affascinante dello hindi: Tutti vogliono che la moglie sappia l’inglese in modo da potersi muovere insieme in società. Se andate a un party o al club, sarete più attratti da una persona che parla inglese che da una che si esprime in hindi” (7). E Salman Rushdie, che parla “anglo-indiano”, rileva soddisfatto: “L’inglese, che non è più una lingua inglese (sic), ora si sviluppa da molte radici” (8).
In India, sono attualmente più di 3.000 i giornali e le riviste redatti almeno parzialmente in inglese! Qualcuno ha osservato d’altronde che ci sono ben più indiani che inglesi a parlare l’inglese (o l’indian english…), conseguenza anche del fatto che la stessa Costituzione indiana preveda l’inglese come lingua associata.
Un altro caso è il japlish (o janglish), largamente diffuso dalla televisione giapponese: termini come manschon (= appartamento, dall’inglese mansion, palazzo suddiviso in appartamenti) o aisukurimu (da ice-cream) ne sono solo due frammenti curiosi. In effetti già nell’Ottocento figuravano in Giappone circoli filo-occidentali che sostenevano l’opportunità di adottare l’inglese addirittura al posto del giapponese (9), ma è dall’ultimo dopoguerra, dopo la sconfitta militare, che il japlish ha letteralmente dilagato: oggi più di 20.000 termini inglesi – perlopiù tecnico-economici, ma anche di svariati altri generi – sono entrati nel vocabolario giapponese. E l’inglese è studiato dalla pressoché totalità degli studenti delle scuole medie inferiori e dal 70% di quelli delle superiori.
Restando in Asia, esaminiamo la situazione di un altro colosso, la Cina. L’inglese vi figura come prima lingua straniera, insegnato in tutte le scuole secondarie e in qualche caso anche nelle scuole elementari. Dalla fine degli anni Settanta, in effetti, “la decisione di sviluppare la base industriale e tecnologica della Cina incoraggiando gli investimenti e le competenze occidentali ha portato a un programma accelerato di insegnamento dell’inglese. La televisione cinese cominciò a trasmettere parecchie lezioni d’inglese alla settimana, con titoli tipo Yingying impara l’inglese o Mary va a Pechina. La serie più popolare è stata Follow me, prodotto dalla BBC, che ha raggiunto un’audience di più di 50 milioni di telespettatori” (10).
In Birmania e in Pakistan le rispettive Costituzioni prevedono esplicitamente l’uso “consentito” dell’inglese, mentre una certa diffusione della stampa in inglese riguarda diversi paesi arabi produttori di petrolio. Naturalmente largo spazio ha l’inglese in Israele, ove fu introdotto ai tempi del mandato britannico (11) e dove si è successivamente sviluppato ad ogni livello ( ne è obbligatorio lo studio a partire dalla quinta elementare), così come a Singapore, ove è la lingua ufficiale del governo, del sistema giuridico e dell’istruzione. Notevole è anche il grado di penetrazione in Indonesia, nelle Filippine e nel Bangladesh.
In Africa l’enorme estensione dell’impero britannico ha assicurato la diffusione della lingua inglese già alla fine del XIX secolo; oggi nazioni come l’Egitto e la Nigeria presentano un alto tasso di contaminazione e fungono da esempio per gli stati confinanti, che riconoscono frequentemente l’inglese come lingua ufficiale (così la stessa Nigeria, lo Zambia, il Botswana, il Ghana, il Gambia, il Lesotho, il Sudafrica, l’Uganda e il Camerun…). Un caso notevole è anche l’Etiopia, ove l’inglese minaccia da presso l’aramaico: gli atti pubblici sono ormai pressoché tutti bilingui e la scuola secondaria – nonché le attività commerciali – vedono l’allargamento a macchia d’olio della “seconda lingua” a scapito del linguaggio materno.
In America latina, ove peraltro lo spagnolo contende con successo il primato di diffusione all’inglese, sono sorte forme ibride, del tipo NNVE, lo spanglish (struttura spagnola con estesa rilessificazione in inglese) e l’inglese “giamaicano” detto anche “creolo caraibico”. Grazie a quest’ultimo, in particolare, i nativi “non si sentono né del tutto caraibici né del tutto inglesi” (12).
Trascriviamo a mo’ di esempio un’espressione di creolo caraibico e il suo paradigma inglese: di kuk di tel mi faamin, bot is nat so = the cook told me I was shamming sick, but it’s not so (il cuoco mi ha accusato di fingere di essere malato, ma non è così).
Intanto in Canada la popolazione francofona è costretta ad un bilinguismo percepito come evidente forzatura, nel senso che i francofoni “per sopravvivere, per prosperare economicamente e socialmente sono costretti a conoscere l’inglese” (13).
Un caso particolarmente notevole e interessante è quello offerto dalle Papua-Nuova Guinea. In questo ambito territoriale figurano circa 750 lingue (oltre i dialetti) parlate da un totale di circa tre milioni di persone. L’inglese ha preso piede sul finire del XIX secolo, e si è molto sviluppato con l’annessione dell’area ex-tedesca da parte dell’Australia (nel 1919) e il conseguente obbligo di utilizzare esclusivamente l’inglese nell’istruzione e nell’amministrazione. Conquistata l’indipendenza, questo vero e proprio genocidio linguistico – non dimentichiamo che molte parlate sono scomparse e che, degli anzidetti 750, molti idiomi sono vicinissimi all’estinzione – prosegue l’adozione del tok pisin, un pidgin (linguaggio ristretto, semplificato, di “contatto” fra le due lingue diverse) che presenta l’80% di termini inglesi in un contesto strutturale “locale”.
Un breve accenno, infine, alla situazione europea; anche qui il grado di colonizzazione linguistica – di concerto con quella culturale e con quella economica – è assai elevato. In Svezia si è potuto parlare di uno swinglish in costante crescita: uno studio dell’Università di Stoccolma attesta che più della metà degli intervistati ha dichiarato di usare – fra l’altro – il plurale in “s” anziché quello in “or”, “er”, “ar”, tipici dello svedese (14).
Reazioni vivaci al diffondersi de la langue de Coca Cola si sono invece avute – in particolare dalla presidenza Pompidou a quella di Mitterand – in Francia, ove il computer è l’ordinateur, l’AIDS il SIDA, la hot money les capitaux fèbriles, il pret-à-manger, e perfino il jumbo jet torna ad essere il gros porteur.
Anche in Germania – ove politici e intellettuali politicamente corretti si esprimono non di rado in denglish (tedesco/inglese) – si manifesta, più sporadicamente, una forma di non allineamento: una Lega per la valorizzazione del tedesco assegna ogni anno un polemico riconoscimento Sprachpanscher des Jahres (annacquature della lingua) a personaggi postisi all’avanguardia del processo di disgregazione dell’idioma nazionale.
Resta il fatto che l’Unione Europea riconosce l’inglese come lingua ufficiale dei suoi organi istituzionali e che molti Paesi europei – Italia inclusa – prevedono l’inglese come materia obbligatoria nei più qualificanti concorsi pubblici.
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“I dati della diffusione odierna dell’inglese sono impressionanti: si calcola che coloro che lo parlano siano oltre 800 milioni…Al di là delle semplici cifre, ciò che colpisce è come l’inglese sembri essere veramente dappertutto: nei media, nell’industria, nella politica, nello spettacolo, nello sport oltre che naturalmente nella scienza e nella scuola” (15). Queste parole di Gabriella Mazzon – un’esperta – riassumono le dimensioni del fenomeno.
Occorre sottolineare come all’inglese tradizionale si sia in larga misura succeduto – secondo i rapporti di forza instauratisi nel “Villaggio Globale” – l’inglese/americano, nella sua veste di global (e non solo international) language.
Il “cuore” del sistema, in quest’ottica, sembra indiscutibilmente essere – anche sotto il profilo linguistico – la California, “lo stato dove il futuro accade prima”, che fa tendenza e che funge da modello del mondo occidentale. In particolare, il linguaggio coniato a Silicon Valley – massimo centro mondiale della tecnologia informatica, sede di oltre tremila compagnie e società del settore – è destinato a propagarsi in tutto il globo. Espressioni gergali inizialmente legate all’universo dei computer sono già entrate nella conversazione quotidiana (he’s an integrated king of guy = è un tipo organizzato; She’s high res = è informatissima; he’s in beta-test stage = è un novellino; she’s low res = non è troppo sveglia… res sta per resolution).
L’americano, “che ha avuto così rapida diffusione è una sorta di minimo comune multiplo che risponde ai bisogni immediati dello scambio dialogico su scala mondiale. E’ fatto di frasi brevi, e vi abbondano le formule abbreviate” (16).
Esso ha trovato un fondamentale supporto nell’elaborazione del basic english, ovvero del British American Sciontific International Commercial (B.A.S.I.C.) english, ideato nel 1930 a Cambridge da C. K. Ogden. Il basic comprende circa 850 termini, tra cui non più di diciotto verbi; fu caldeggiato e sostenuto da Winston Churchill, che ne affidò la diffusione al British Council, intuendone le sue straordinarie potenzialità di arma di invasione culturale.
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Il trattato di Versailles (giugno 1919) fu un sinistro segno dei tempi. Ci sono avvenimenti, date cruciali che aprono un’epoca, introducono un elemento qualitativamente diverso destinato a ripercuotersi negli anni a venire. “Era un generale francese a comandare le truppe dell’Intesa al momento della vittoria finale. Ma quando cominciarono le trattative fra gli Alleati necessarie alla preparazione dei trattati, poiché i capi delle delegazioni britannica e americana non sapevano il francese, mentre il capo della delegazione francese parlava correntemente l’inglese, quasi tutti i dibattiti preliminari ebbero luogo in inglese. Per una singolare e anche assurda innovazione, il trattato di Versailles è stato redatto in due versioni che entrambe facevano fede, una francese e una inglese, e a leggerle si ha spesso l’impressione che quella francese sia tradotta dall’inglese. E così la fine della guerra in cui la Francia aveva giocato militarmente il ruolo della protagonista ha sancito la caduta del privilegio che faceva del francese la sola lingua diplomatica” (17).
La tappa decisiva verso l’americanizzazione del mondo e il predominio rapace del capitalismo internazionale nasce in quegli anni. Oggi il progetto mondiali sta si consolida e si rafforza nel segno del language pot, nello snobismo di intellettuali liberali e progressisti fagocitati dal “nuovo mondo”.
Musica americana, cinema americano, narrativa e pubblicistica americana, turismo americano (i clubs uguali in tutto il mondo, dal Mar Rosso a Santo Domingo…), scuole inglesi per residenti in tutta Europa (quanti italiani mandano i figli alla scuola di inglese?): questo è il paesaggio culturale che ci circonda, lo scenario in cui agiamo personalmente e politicamente.
Non diversamente si nota una sempre maggior omologazione lessicale trans linguistica nei linguaggi specialistici legati al mondo dell’economia e della scienza (18). In un mondo che sacrifica all’economia valori tradizionali e identitari, che subordina al mercato (e soprattutto ai mercanti plutocratici) l’ambiente e la stessa sopravvivenza di popoli e razze, non stupisce che siano le multinazionali a dettare il ritmo della modernizzazione. “Molte multinazionali giapponesi (come la Nissan o la Datsun) scrivono memoranda internazionali in inglese. La Chase Manattan Bank dà istruzioni in inglese a membri del suo personale sparsi per tre continenti. L’Aramco, una grossa multinazionale petrolifera, insegna l’inglese a più di 10.000 operai in Arabia Saudita. In Kuwait il centro linguistico dell’università insegna prevalentemente l’inglese, per lo più a un livello altamente specializzato. ‘ La facoltà di ingegneria ha un suo inglese, condizionato dagli usi professionali ’ riferisce il direttore, il dottor Rasha Al-Sabah, ‘ così forniamo corsi di inglese per ingegneri ’. La sollecitazione verso l’apprendimento dell’inglese in questo ambiente è di ordine strettamente commerciale. Un uomo d’affari che non s al’inglese e che deve correre dalla sua segretaria bilingue ha seri problemi di competitività. La ‘ necessità dell’inglese ‘ ha creato alcune interessanti imprese commerciali, la più famosa delle quali è forse l’IVECO, che si occupa di mezzi per il trasporto pesante. Con sede a Torino, finanziata con denaro francese, tedesco e italiano, con personale europeo per il quale l’inglese è solo una lingua alternativa, tratta tuttavia tutti i suoi affari in inglese” (19).
Ma siamo proprio destinati ad un futuro di globalizzazione? A una cultura di massa angloamericana? Crediamo proprio di no. La situazione attuale è infatti conseguenza di particolari contingenze politiche ed economiche e appare tra l’altro in rapida evoluzione. La crisi epocale degli Stati Uniti e il pur faticoso cammino dell’Europa verso l’unificazione lasciano presagire uno spostamento del baricentro geografico mondiale verso Est; dall’Atlantico verso il Centro Europa.
Lo spostamento di tale baricentro determinerà tra Europa e Occidente quello strappo che la duplice vittoria americana nei due conflitti del ventesimo secolo avevano finora impedito. L’Europa potrà con una svolta storica sottrarsi tanto alla colonizzazione politico-militare che a quella economica. Libera dalla nefasta influenza anglo-americana, l’Europa potrà finalmente scegliersi da sola amici e nemici e instaurare coi vicini popoli arabi e africani un’era di collaborazione e di pace. Ad agevolare e a precedere la svolta contro la cultura e il modello di vita americano, già oggi può essere di aiuto una serie di avvertenze guida.
– Va denunciata in ogni circostanza la globalizzazione e l’ideologia che la ipsira e la sostiene, il mundialismo; la sua azione livellatrice di ogni specificità e disgregatrice di ogni differenza. Vi è una stima attuale di 5.000 lingue nel mondo, ma 4.500 di esse sono parlate solo dal 5% della popolazione mondiale, ed anzi la metà complessiva degli umani (quindi tre miliardi) ne parla soltanto undici! (20). Centinaia di idiomi sono oggi direttamente minacciati dalla supremazia dell’inglese/americano e rischiano l’estinzione, aggiungendosi a quelli già scomparsi. Essi portano con sé visioni del mondo, “immagini, colori, profumi, emozioni, sensazioni, paure, attimi di felicità che appartengono a quella lingua e che nessuna altra è in grado di esprimere con le stesse sfumature” (21).
– Occorre evitare di mitizzare o enfatizzare la conoscenza propria o altrui – dell’inglese; essa – se può risultare utile per particolari motivi pratici – nulla ha a che vedere con la cultura in senso vero; si tratta di avere nel proprio bagaglio culturale qualche centinaia di sinonimi in più o in meno.
– Bisogna evitare di servirsi – nello scrivere e nel parlare – qualora non siano strettamente necessarie le espressioni inglesi; si dice va bene e non O.K., fine settimana e non week-end, pirati e non haker, spacciatore e non pusher…
– E’ consigliabile, in linea di massima, la lettura di libri italiani ed europei preferendoli a quelli angloamericani; idem per pellicole cinematografiche e opere teatrali (in questi campi la penetrazione di una produzione statunitense di infima qualità è particolarmente inquietante).
– Sarà simpatico far rilevare pubblicamente e ridicolizzare gli errori di pronuncia dei nostri pseudo acculturati radio televisivi quando parlano di mass-midia, di sinior e giunior, di Maicrosoft o addirittura di casus bellai, o di yurika al posto di eureka.
– Nelle scelte scolastiche dei figli sarà opportuno considerare del tutto secondario lo studio dell’inglese: evitiamo di incentrare la loro formazione culturale sulla conoscenza delle lingue moderne straniere! Quando, e se ne avranno bisogno, potranno impararlo in seguito.
– Un invito particolare a rinunciare a capi d’abbigliamento – in particolare magliette e berrettini – che rappresentino bandiere a stelle e strisce o scritte “americane”: dalle varie “University of” alle squadre di base-ball, alle firme cubitali di marche celebrate quali l’anglogiudaica Levis, Hilfiger, Nike, (“Naik”), ecc.
– Nel corso di viaggi all’estero effettuati fuori dall’area anglo-sassone è consigliabile escludere l’inglese come lingua internazionale di comunicazione; ci si rivolge quando possibile ai locali nella loro lingua, oppure in italiano, francese, tedesco, spagnolo…Se poi in Italia un anglo-americano vi rivolge la parola nella sua lingua non sforzatevi di capire. Gli servirà a rendersi conto che nel mondo – oltre a loro – esistono anche gli altri.
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Recuperare la distanza fra Europa e Occidente – un Occidente separato e lontano in termini geografici e ideali dalla nostra realtà – sentirla come imprescindibile, porterà anche a rafforzare un sistema linguistico europeo in qualche modo complementare e integrato, fondato sull’autorevolezza delle quattro lingue – francese, tedesco, italiano e spagnolo – che dovranno essere le lingue ufficiali di una comunità europea dal rinnovato ruolo politico
NOTE
1) C. Mutti, L’angloamericanismo contro le lingue europee (Occidente – Europa II) in Letteratura e Tradizione, anno II – numero 5, gennaio 1999, p. 30.
2) S. Agliotti e F. Fabbro, Cervello poliglotta e apprendimento delle lingue, in Le Scienze, numero 365, gennaio 1999, p. 58.
3) A. Magliaro, La parola e l’immagine, Napoli 1957, p. 353.
4) Su ciò: A. Bausani, Le lingue inventate. Linguaggi artificiali, segreti universali, Roma 1974, p. 100 sgg.
5) Un’ideale tendenza alla globalizzazione linguistica è già presente nell’illuminismo giacobino; così si esprime ad esempio, suscitando la generale approvazione, il tribuno Barère alla Convenzione nel gennaio 1794 (citato da R. Lafont, Sur la France, Parigi 1968, p. 1959): “Non ci sono più provincie. Perché allora tanti dialetti che ne ricordano il nome? Cittadini, voi avete detestato il federalismo politico, abiurato quello del linguaggio”. Ricordiamo – per quel che riguarda la Rivoluzione d’Ottobre – di come Stalin prevedesse tre fasi di sviluppo nell’era socialista: ad una prima tappa di consolidamento delle lingue nazionali, precedentemente oppresse, sarebbe seguito l’emergere di “lingue zonali” e poi di una lingua mondiale comune a tutti (cfr. A. Bausani, op. cit. pp. 146-147).
6) C. Hagège, Storia e destini delle lingue d’Europa, Scandicci 1995, p. 33.
7) R. Mc Crum, W. Cran, R. Mac Neil, La storia delle lingue inglesi, Bologna 1992, p.39.
8) Ibidem, p. 40.
9) Si veda su ciò: G. Mazzon, Le lingue inglesi. Aspetti storici e geografici, Roma 1994, p. 223 sg.
10) R. Mc Crum, W. Cran, R. Mac Neil, op. cit. p. 41.
11) Sulla presenza – a fianco dell’inglese – della lingua ebraica in quel contesto vedasi: P. Sella, Prima di Israele – palestina, nazione araba, questione ebraica, Milano 1990, p. 179 e pp. 155-156.
12) R. Mc Crum, W. Cran, R. Mac Neil, op. cit. p. 318.
13) J. Darbelnet, Le Bilinguisme, in Annales de la Facultè de Lettres et de Sciences de Nice, numero 12, ottobre 1970. la situazione, tra alti e bassi legislativi, non è ad oggi sostanzialmente mutata.
14) R. Mc Crum, W. Cran, R. Mac Neil, op. cit. p43.
15) G. Mazzon, op. cit., pp.220-221.
16) C. Hagège, op. cit., p. 45.
17) A. Meillet, citato in C. Hagège, op. cit. p. 38. Un altro passaggio storico cruciale scandito dal predominio dell’inglese è stata la dichiarazione di disconoscimento della natura divina dell’imperatore del Giappone, resa dallo stesso Hiroito, su dettatura degli americani, al termine del secondo conflitto mondiale. Tale dichiarazione pubblica – rivolta in primo luogo ai cittadine dell’impero – fu resa in inglese e non in giapponese.
18) Su ciò si veda B. Di Sabato, Una lingua in viaggio. Incontri, percorsi, e mete dell’inglese di oggi, Napoli, 2000.
19) R. Mc Crum, W. Cran, R. Mac Neil, op. cit. p. 41.
20) Cfr su questi dati e le possibili evoluzioni: C. Hagège, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Milano, 2002.
21) A. Troiano, Ogni quindici giorni muore una lingua, in Corriere della Sera, 7 giugno 2002, p. 27.
Sono una donna fortunata perché ho incontrato molti maestri sul mio Sentiero, uno di questi é Juan Flores Salazar, il medico che canta alle piante. Non mi dilungo sul Maestro, la rete é anche ricerca, e chi cerca trova, 🙂
ma vi voglio mostrare alcune foto (scattate purtroppo con uno scadente telefonino perché non dispongo di altro) dove vedrete delle piante che vivono qui in città, piante coraggiose, maestose, che dall’alto delle loro chiome che si spingono oltre i tetti delle case, riescono ancora a captare la luce “rossa” del tramonto. Rubedo. Vorrei tanto che vedeste attraverso i miei occhi, spero di riuscirci, perché in quell’attimo durato meno di 5 minuti, ho colto per magia lo scambio fotonico e molecolare che avviene… é una cosa inspiegabile, ma che io con semplicità e umiltà chiamo amore.
Le piante mangiano la luce, le piante sono gli esseri viventi più antichi e il loro dna può comunicarci molto. È un linguaggio biochimico che interagisce con l’uomo.
L’interazione fra luce e materia è iniziata con la creazione del mondo.
Da quando Dio disse “Sia la luce”, la materia, in certe condizioni, ha iniziato ad emettere luce e la luce ha cominciato ad essere assorbita dalla materia.
La luce solare genera ossigeno ed i prodotti dell’agricoltura (cioè energia per la vita), mentre nei processi collegati alla visione fornisce informazioni sul mondo che ci circonda.
Jatropha curcas L. è un arbusto perenne, velenoso, di altezza massima di circa 5 m, appartenente alla famiglia delle Euforbiacee[1]. È comunemente nota come Barbados nut or Physic nut
Zone del mondo dove può svilupparsi al meglio
La pianta è originaria del Centro America,[2], da dove è stata diffusa in diverse altre zone tropicali e subtropicali[3] è principalmente coltivata in Asia e in Africa, dove è conosciuta come Pourghère. Dato che è tossica è usata spesso come recinzione vivente per proteggere orti e giardini dagli animali, per lo stesso motivo in Africa è usata per recintare tombe e cimiteri. È molto resistente all’arido, è coltivabile in zone pressoché desertiche.
Eccola guardate é molto bella anche se velenosa!
I semi contengono circa il 30-38% di olio, non commestibile ma utilizzabile tal quale come comune combustibile, ovvero come carburante, previa semplice filtrazione, in motori Diesel opportunamente progettati, oppure trasformabile in Biodiesel tramite transesterificazione e impiegabile in tutti i motori Diesel senza alcuna modifica specifica.
Jatropha curcas cresce dappertutto, anche in suoli compatti, sassosi o sabbiosi, sopporta suoli salini, su suoli rocciosi e terreni sterili.
Tradizionalmente l’olio si usa a scopo combustibile, per cuocere o per illuminare; è anche utilizzato per produrre saponi, lubrificanti, cosmetici, base per prodotti chimici. Si è affermata la sua capacità a produrre carburanti. I carburanti prodotti sono essenzialmente di due tipi: Olio vegetale tal quale, ovvero olio che trattato (transesterificato) costituisce il carburante biodiesel.
Per la presenza di sostanze tossiche ed irritanti, l’olio di jatropha non è commestibile.
La Jatropha non compete con la produzione di generi alimentari poiché non è commestibile, richiede basse quantità di acqua ed è sufficiente un’irrigazione “sporca”, e quindi non sottrae acqua potabile all’uso umano, cresce in zone aride dove comunque sarebbero possibili poche altre colture. Permette di estendere la superficie coltivabile in zone aride, svolge un ruolo importante contro la desertificazione e l’erosione dei suoli.
Una centrale a biocarburante ad olio di Jatropha è in fase di realizzazione presso il porto di Oristano, in Sardegna e si prevede anche la coltivazione sul luogo della pianta di Jatropha, in territori a rischio di desertificazione, vista l’ adattabilità di questo vegetale a suoli semi-aridi e soggetti a scarse precipitazioni.
troverete molto sulla rete su questa pianta amica
buona ricerca…
La campagna Genuino Clandestino è stata avviata da CampiAperti nel 2010 (quando il comune di Bologna ha regolarizzato attraverso dei bandi i mercati esistenti), per denunciare un insieme di norme ingiuste che, equiparando i nostri prodotti trasformati a quelli delle grandi industrie alimentari, li rende fuorilegge. In questo modo abbiamo rinnovato a politica di trasparenza che da sempre manteniamo nei confronti dei nostri consumatori. Tuttora indichiamo quali sono, nei nostri mercati, i prodotti non a norma secondo la legge italiana, e li invitiamo a difenderli e a diffonderli, perché tutti sappiano che sono genuini e affidabili.
La campagna è stata accolta in seguito da altre realtà e associazioni contadine che in giro per l’Italia avevano gli stessi problemi ed è diventata un movimento nazionale per l’agricoltura biologica e contadina (vedi rete nazionale e le indicazioni per aderire).
Doc., HD,2011,colore,70′ – Un film di Nicola Angrisano, InsuTv
SINOSSI:
“Movimento di Resistenze Contadine” –
Decine di coltivatori, allevatori, pastori e artigiani si uniscono nell’attacco alle logiche economiche e alle regole di mercato cucite sull’agroindustria, per difendere la libera lavorazione dei prodotti, l’agricoltura contadina, l’immenso patrimonio di saperi e sapori della terra.
Da questa rete nasce la campagna “Genuino Clandestino”, con donne e uomini da ogni parte d’Italia che si autorganizzano in nuove forme di resistenza contadina.
Mentre la burocrazia bandisce dal mercato migliaia di piccoli produttori, il consumatore continua a subire, spesso inconsapevolmente, modelli di produzione del tutto inadeguati a garantire genuinità ed affidabilità dei cibi.
Attraverso il lavoro, le situazioni e le voci dei contadini “clandestini”, insu^tv racconta questa campagna, semplice nel suo messaggio, ma determinata nelle sue forme, insieme alle implicazioni in materia di democrazia del cibo, sviluppo economico, salvaguardia dell’ambiente e accesso alla terra.
Per acquistare il dvd, per organizzare presentazioni ed eventi correlati al film e alla rete contadina:
genuino@insutv.it
Impeccabile video fotografia creativa che racconta la storia di un singolo albero di sicomoro (Ficus sycomorus), albero regina dell’Africa. Si tratta di uno studio meraviglioso del suo microcosmo e del marchio di qualità per comprendere la complessità della Terra in generale.
Quello che comunemente viene ritenuto il frutto è in realtà nel Sicomoro una grossa infiorescenza carnosa piriforme (siconio), all’interno della quale sono racchiusi i fiori unisessuali, piccolissimi; una piccola apertura apicale, detta ostiolo, consente l’entrata degli imenotteri pronubi; i verifrutti, che si sviluppano all’interno dell’infiorescenza, sono dei piccoli acheni.
Le diverse specie di Ficus hanno in genere un rapporto strettamente specie-specifico con i loro impollinatori, che sono tutti imenotteri della famiglia Agaonidae. Il sicomoro rappresenta una eccezione in quanto può essere impollinato solo da due differenti agaonidi, Ceratosolen arabicus e Ceratosolen galili, che condivide con un’altra specie africana, Ficus mucuso.
L’albero del Sicomoro ha una importante funzione simbolica, viene citato nei testi sacri di diverse religioni e tradizioni, sono certa che cercando in rete troverete altre mille storie interessanti…
Appena giunto in paradiso Pictor si trovò dinnanzi ad un albero che era insieme uomo e donna. Pictor salutò l’albero con riverenza e chiese: “Sei tu l’albero della vita?”.
Ma quando, invece dell’albero, volle rispondergli il serpente, egli si voltò e andò oltre. Era tutt’occhi, ogni cosa gli piaceva moltissimo. Sentiva chiaramente di trovarsi nella patria e alla fonte della vita. E di nuovo vide un albero, che era insieme sole e luna. Pictor chiese: “Sei tu l’albero della vita?”.
Il sole annuì e sorrise. Fiori meravigliosi lo guardavano, con una moltitudine di colori e di luminosi sorrisi, con una moltitudine di occhi e di visi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e non sorridevano: ebbri tacevano, in se stessi si perdevano, nel loro profumo si fondevano. Un fiore cantò la canzone del lillà, un fiore cantò la profonda ninna nanna azzurra. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il primo amore. Uno aveva il profumo del giardino dell’infanzia, il suo dolce profumo risuonava come la voce della mamma. Un altro, ridendo, allungò verso di lui la sua rossa lingua curva. Egli vi leccò, aveva un sapore forte e selvaggio, come di resina e di miele, ma anche come di un bacio di donna.
Tra tutti questi fiori stava Pictor, pieno di struggimento e di gioia inquieta. Il suo cuore, quasi fosse una campana, batteva forte, batteva tanto; il suo desiderio ardeva verso l’ignoto, verso il magicamente prefigurato. Pictor scorse un uccello sull’erba posato e di luminosi colori ammantato, di tutti i colori il bell’uccello sembrava dotato. Al bell’uccello variopinto egli chiese: “Uccello, dove è dunque la felicità?”. ”La felicità?” disse il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, “la felicità, amico, è ovunque, sui monti e nelle valli, nei fiori e nei cristalli”. Con queste parole l’uccello spensierato scosse le sue piume, allungò il collo, agitò la coda, socchiuse gli occhi, rise un’ultima volta e poi rimase seduto immobile, seduto fermo nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore variopinto, le piume si erano trasformate in foglie, le unghie in radici. Nella gloria dei colori, nella danza e negli splendori, l’uccello si era fatta pianta. Pictor vide questo con meraviglia. E subito il fiore-uccello cominciò a muovere le sue foglie e i suoi pistilli, già era stanco del suo essere fiore, già non aveva più radici, scuotendosi un po’ si innalzò lentamente e fu una splendida farfalla, che si cullò nell’aria, senza peso, tutta di luce soffusa, splendente nel viso. Pictor spalancò gli occhi dalla meraviglia.
Ma la nuova farfalla, l’allegra variopinta farfalla-fiore-uccello, il luminoso volto colorato volò intorno a Pictor stupefatto, luccicò al sole, scese a terra lieve come un fiocco di neve, si sedette vicino ai piedi di Pictor, respirò dolcemente, tremò un poco con le ali splendenti, ed ecco, si trasformò in un cristallo colorato, da cui si irraggiava una luce rossa. Stupendamente brillava tra erbe e piante, come rintocco di campana festante, la rossa pietra preziosa. Ma la sua patria, la profondità della terra, sembrava chiamarla; subito incominciò a rimpicciolirsi e minacciò di scomparire. Allora Pictor, spinto da un anelito incontenibile, si protese verso la pietra che stava svanendo a la tirò a sè. Estasiato, immerse lo sguardo nella sua luce magica, che sembrava irraggiargli nel cuore il presentimento di una piena beatitudine. All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero disseccato, il serpente gli sibilò nell’orecchio:” La pietra ti trasforma in quello che vuoi. Presto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi!”.
Pictor si spaventò e temette di vedere svanire la sua fortuna. Rapido disse la parola e si trasformò in un albero. Giacchè più di una volta aveva desiderato essere albero, perché gli alberi gli apparivano così pieni di pace, di forza e di dignità.
Pictor divenne albero. Penetrò con le radici nella terra, si allungò verso l’alto, foglie e rami germogliarono dalle sue membra. Era molto contento. Con fibre assetate succhiò nelle fresche profondità della terra e con le sue foglie sventolò alto nell’azzurro. Insetti abitavano nella sua scorza, ai suoi piedi abitavano il porcospino e il coniglio, tra i suoi rami gli uccelli. L’albero Pictor era felice e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima che si accorgesse che la sua felicità non era perfetta. Solo lentamente imparò a guardare con occhi d’albero. Finalmente potè vedere, e divenne triste. Vide infatti che intorno a lui nel paradiso gran parte degli esseri si trasformava assai spesso, che tutto anzi scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide fiori diventare pietre preziose o volarsene via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sè più d’un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in fonte, un altro era diventato coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento, con grande godimento, come pesce allegro guizzando, nuovi giochi in nuove forme inventando. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori.
Lui invece, l’albero Pictor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi.
Dal momento in cui capì questo, la sua felicità se ne svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: quando non possiedono il dono della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza.
Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dalla veste azzurra si perse in quella parte del paradiso. Cantando e ballando la bionda fanciulla correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una scimmia sapiente sorrise al suo passaggio, più di un cespuglio l’accarezzò lieve con le sue propaggini, più di un albero fece cadere al suo passaggio un fiore, una noce, una mela, senza che lei vi badasse.
Quando l’albero Pictor scorse la fanciulla, lo prese un grande struggimento, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo si trovò preso in una profonda meditazione, perché era come se il suo stesso sangue gli gridasse :” Ritorna in te! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità”. Ed egli ubbidì.
Rammemorò la sua origine, i suoi anni di uomo, il suo cammino verso il paradiso, e in modo particolare quell’istante prima che si facesse albero, quell’istante meraviglioso in cui aveva avuto in mano quella pietra fatata. Allora, quando ogni trasformazione gli era aperta, la vita in lui era stata ardente come non mai! Si ricordò dell’uccello che allora aveva riso e dell’albero con la luna e il sole; lo prese il sospetto che allora avesse perso, avesse dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.
La fanciulla udì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri, nuovi desideri, nuovi sogni muoversi dentro di lei. Attratta dalla forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario, solitario e triste, e in questo bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido, sentì l’albero rabbrividire profondamente, sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario? L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sè ogni forza vitale, proteso verso la fanciulla, in un ardente desiderio di unione. Ohimè, perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così, per sempre, solo in un albero!
Oh, come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero allora sapeva così poco, davvero allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito, ohimè! E con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna!
Venne volando un uccello, rosso e verde era l’uccello, ardito e bello , mentre descriveva nel cielo un anello. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò rosso come sangue, rosso come brace, e cadde tra le verdi piante, splendette di tanta familiarità tra le verdi piante, il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso, che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino, ed intorno ad esso non vi può essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe preso la pietra fatata nella sua mano bianca, immediatamente si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui.
Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine, solo ora era stato trovato il paradiso, Pictor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Pictoria. Vittoria. Era trasformato. E poichè questa volta aveva raggiunto la vera, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato un tutto, da quell’istante potè continuare a trasformarsi, tanto quanto voleva. Incessantemente il flusso fatato del divenire scorreva nelle sue vene, perennemente partecipava della creazione risorgente ad ogni ora.
Divenne capriolo, divenne pesce, divenne uomo e serpente, nuvola e uccello. In ogni forma però era intero, era un “coppia”, aveva in sè luna e sole, uomo e donna, scorreva come fiume gemello per le terre, stava come stella doppia in cielo.
Impariamo ad ascoltarli e cantare per loro e con loro.
Gli Alberi conoscono tutto di noi, ci ascoltano, ci “parlano”, ci accompagnano nello nostra crescita spirituale, sono scherzosi, seri, amorevoli, illuminati dalla luce divina sono felici di essere accuditi, sono felici quando parliamo con loro, cantiamo per loro, abbiamo rispetto per loro.
Lo scopo del regno vegetale è di nutrire animali e uomini,
consolidare il terreno, accrescere la bellezza e mantenere l’equilibrio nell’atmosfera.
Mi venne detto che le piante e gli alberi cantano silenziosamente per noi umani
e che tutto ciò che chiedono in cambio è di cantare per loro.
– Marlo Morgan
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